FONDAMENTI PER UNA GIUSTA ISTRUZIONE

Nonostante da secoli sia stata accantonata la concezione del bambino in termini di lavagna bianca sulla quale scrivere la sua storia presente e futura, ancora molti tra ragazzi e ragazze sono trattati alla stregua di una tabula rasa sulla quale, loro malgrado, viene inciso praticamente ogni aspetto della loro esistenza. In questo modo, divenuti contenitori indifferenziati di introietti imposti da genitori, parenti, pari e figure istituzionali, a molti giovani viene tolta la capacità di potere.
Possiamo intendere quest’ultima in termini di possibilità, in mano a ciascun individuo, di pensare e agire nel mondo circostante sulla base del proprio modo di essere e di relazionarsi, influenzando la realtà esterna attraverso i propri talenti e le proprie capacità, alimentando così la grande raccolta differenziata dell’umanità, metafora simbolica di quell’importantissima caratteristica degli esseri umani: la variabilità interindividuale. Conseguentemente, disconoscere ai giovani una tale capacità significa negare loro l’opportunità di coltivare la propria essenza, unito all’apprendimento dell’impotenza di rinnegare valori, emozioni e capacità loro imposti.
Parlare di giovani individui implica quasi direttamente di riferirsi a due grandi sistemi che adiuvano, o cercano di aiutare, la loro crescita: la famiglia e la scuola. Questi ultimi costituiscono i primi ambienti all’interno dei quali il bambino, durante il suo percorso di crescita, entra in contatto con l’autorità e, talvolta, ne subisce le decisioni. In ogni modo, il problema non risiede tanto nel fatto che esista una sistema autoritario ambizioso di mantenere l’ordine in tutti i contesti di vita dei giovani, quanto piuttosto nel fatto che tale sistema si imponga ai ragazzi e introietti loro credenze, modi di essere e di pensare che annullano completamente il loro potere.
A tal proposito, significativo è un breve racconto riportato da Richard Dawkins nel suo libro L’Illusione di Dio. In questo breve passo, l’autore racconta che, da bambina, alla moglie proprio non piaceva andare a scuola e, di fatto, non avrebbe più desiderato frequentarla. Tuttavia, stretta nelle grinfie sociali famigliari e scolastiche, la moglie rivela ai genitori questo suo stato d’animo solo quando è poco più che ventenne. Così, alla domanda della madre sul perché ella non ne avesse mai parlato prima, la moglie di Dawkins risponde che non sapeva di avere la capacità di poter esprimere il suo disprezzo per la scuola. Non sapeva di potere.
Molto probabilmente, in tanti si sono trovati nella situazione riportata in questo esempio, ossia la condizione di reprimere un proprio pensiero o malessere per poi sentirsi dire che ne avrebbe dovuto parlare, oppure me lo avresti dovuto dire. Peccato che, molto spesso, genitori e scuola formano una coppia criminale piuttosto difficile da fermare, per cui alle critiche degli insegnanti si aggiungono le denigrazioni in seno alla famiglia.
Con quale diritto molti adulti si credono liberi di soffocare le ambizioni e le capacità di futuri cuochi, atleti, fisici o artisti? Nel momento in cui il genitore e l’insegnante giocano ad essere Dio mettendo a nudo le debolezze del ragazzo di fronte ad altri, piuttosto che insultandolo platealmente per un insuccesso o per proprie oggettive difficoltà, essi stanno stroncando di punto in bianco la trama delle sua vita.
Tuttavia, secondo quell’irrazionale legge del ciò che non ti uccide, ti fortifica, molti sostengono ignorantemente che non fa male denigrare selvaggiamente un bambino, ad esempio dandogli dell’idiota, o peggio. Niente di più insensato in un’ottica di sviluppo, dal momento che se la scuola e la famiglia, da luoghi di contenimento dei propri Sé, diventano le principali armi contro la persona, ciò che non uccide un bambino di certo lo indebolisce financo annichilirlo totalmente. Di converso, quando ad essere attaccati sono questi dei per un giorno, ecco il male vero e proprio alla maestosità della loro tirannia, senza che, però, venga né lesa né sicuramente uccisa alcuna personalità.
Di nuovo, torna utile un paragone proposto da Dawkins nel libro succitato: stroncare un’attività di commercio pare un affare di poco conto rispetto a bestemmiare Dio. Il fatto è che il commerciante viveva del suo negozio, mentre offendere un dio rappresenta un crimine senza vittima. Allo stesso modo, il bambino vive del contatto con ambienti accoglienti e sicuri, fonti di rassicurazione e amore. Così che, quando l’onnipotenza di questi sistemi prende il sopravvento, l’insulto al ragazzo è cosa di poco conto rispetto all’attacco all’istituzione, scuola, famiglia o Chiesa che sia.
Questo parallelismo religioso consente di porre per un attimo la lente di ingrandimento sui genitori, ma soprattutto sulle loro opinioni inficianti il sano sviluppo psico-relazionale dei loro figli. Il bambino, proprio nel suo essere una persona in formazione, non è in grado di interiorizzare e fare proprie le credenze e i dogmi religiosi, a meno che questi non gli vengano imposti dai genitori. Dunque, non esiste alcun bambino cristiano, musulmano o buddhista, bensì solo figli di genitori cristiani, musulmani o buddhisti.
Allo stesso modo, nessun bambino è un nulla se non nella convinzione di genitori e insegnanti che, in seguito, riversano questa convinzione velenosa nella psiche dell’infante. È piuttosto azzardata come affermazione, seppur condivisibile, quella secondo cui ogni persona sarebbe predisposta sin dalla nascita al pieno sviluppo dei propri talenti, i quali, diversi da quelli di molte altre persone, devono poter essere accolti dall’ambiente primario di sviluppo infantile e con esso coltivati al fine di vederli sbocciare definitivamente.
Ma, allora, in che cosa differiscono un’aula scolastica e una navata di una chiesa? Per come si presentano attualmente, potenzialmente in nulla, se non che nella prima si addestra a piacere agli altri, mentre nella seconda si addestra a piacere a Dio, sostanzialmente perché si tratta di un’istruzione che non è in grado di offrire una visione laica della vita. Infatti, quell’onta di incapacità e ignoranza che viene attribuita di default ai giovanissimi allievi, senza che questi ultimi abbiamo effettivamente commesso qualcosa per meritarsela, può essere ricondotta alla concezione cristiano-cattolica del Peccato Originale, ossia di quella colpa degli adulti (Adamo ed Eva) dalla quale i bambini si liberebbero soltanto con il battesimo (altra scelta dei genitori).
Finché si riproporrà costantemente un siffatto sistema adulto e desueto, che non lascia spazio al singolo di impostare la rotta del proprio viaggio di sviluppo, proprio come quando i genitori impongono ai figli la loro religione, i secondi saranno se stessi, ma solo secondo i canoni dei primi. L’immersione dei giovani in un sistema che sopprime ogni loro genuina ambizione comporta in essi la necessità di difendersi erigendo difese antidepressive. Tuttavia, alle spalle di questa solo apparente serenità di vita (scolastica, lavorativa, religiosa) si celano, come ulteriore fonte di malessere, tratti tossicomanici e compulsivi, i quali si esplicano nella dipendenza dal lavoro, nello studio morboso senza vero apprendimento, oppure nel mero uso narcisistico della cultura.
Sono le persone a formare una società, quindi se le prime, in fase di crescita, divengono ansiose, soffocate dal pensiero di dover sempre dimostrare di eccellere agli occhi degli altri e non appagate, allora la società stessa assumerà per osmosi tali caratteristiche. Di converso, se i genitori e le istituzioni divengono essenzialmente un mezzo per i ragazzi al fine di migliorare e crescere all’interno della società, così da contribuire a creare un tessuto sociale composto da persone che non devono dimostrare niente a nessuno e che sono soddisfatte di loro stesse, allora i giovani muoveranno in essa spinti da condotte vitalizzanti. Solo in questo modo le attività culturali e lavorative genereranno veri e propri apprendimento e appagamento, per cui anche una forte dedizione allo studio e alle proprie aspirazioni, anche lavorative, non assumeranno connotazioni morbose e devitalizzanti.
Riferimenti e suggerimenti bibliografici
Dawkins, R. (2010). L’illusione di Dio. Le ragioni per non credere. Mondadori.