21/08/2025

LA COMUNICAZIONE È IL MEZZO PIÙ FORTE PER CAMBIARE IL MONDO

DARE VOCE A UN RUMORE MUTACICO

In quello che vuole essere il primo di una serie di articoli sul tema, verranno qui affrontati due aspetti di base in ordine alla suddetta giornata mondiale: l’importanza dell’uso del termine specifico femminicidio e la gelosia patologica.

Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabal vengono sequestrate, selvaggiamente torturate e uccise il 25 novembre 1960 per mano degli agenti del servizio segreto militare del dittatore dominicano Rafael Trujillo, assassinato l’anno seguente all’esisto di una sempre maggiore deplorazione della popolazione del suddetto Paese sud-americano. Conseguentemente, sulla scia dei movimenti attivisti per i diritti delle donne, il 17 dicembre 1999 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione 54/134, designa il 25 novembre come la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, sollecitando Governi, organizzazioni internazionali e ONG affinché approntino giornate e iniziative al fine di sensibilizzare e informare l’opinione pubblica circa la problematica della violenza sulle donne e sui potenziali esiti drammatici ad essa conseguente.

Quando si parla di violenza, si indica quell’esternalizzazione del comportamento umano che intacca e distrugge “la dignità, la libertà e i diritti di una persona, di cui l’omicidio costituisce la forma estrema per silenziare l’individuo” (Zara & Gino, 2018, p. 1; tda nostra). Nonostante la violenza non sia esclusivamente unidirezionale, in quanto anche le donne possono identificarsi nel ruolo di perpetratrici, le stesse hanno una maggiore probabilità di essere vittime delle più diverse forme di violenza agite nei loro confronti da parte di un uomo, tra cui rientrano sia manifestazioni più evidenti quali la violenza domestica e l’abuso sessuale, sia espressioni più subdole come l’abuso psicologico ed economico. Certamente, tuttavia, il più drammatico esito della violenza consiste nel suo sfociare nell’uccisione della donna. Da questo assunto la nostra trattazione prenderà forma, affrontando di volta in volta taluni aspetti inerenti la violenza perpetrata da un uomo e concludentisi con l’uccisione della donna.

IL FEMMINICIDIO

Non è soltanto un dovere etico e morale in capo agli addetti ai lavori in ambito medico-sanitario (medici, psicologi, psicoterapeuti, psichiatri) e giurisprudenziale (includendovi anche la figura professionale del criminologo clinico di qualsiasi formazione accademica), bensì anche un dovere civile da parte di tutti i consociati rivolgersi all’assassinio di una donna per mano di un uomo utilizzando il concetto di femminicidio, in quanto non ci si sta riferendo ad uno dei tanti possibili casi di omicidio di cui si ha notizia attraverso i mass media, piuttosto all’omicidio “di una donna per il fatto di essere donna, quindi per esempio l’uccisione della partner infedele, o anche solo ‘disobbediente’, o in procinto di lasciare un marito magari dopo anni e decenni di soperchierie e di violenze” (Merzagora, 2023, p. 43).

Il lemma femminicidio viene usato per la prima volta dal giornalista statunitense John Corry agli inizi del XIX secolo per veicolare il significato dell’uccisione di una donna. In seguito, nel corso degli anni, si è sempre più riconosciuto il femminicidio in qualità di “estrema forma di violenza nei confronti di qualcuno appartenente al genere femminile” (Cecchi et al., 2022, p. 1; tda nostra), giungendo ad includere nel suddetto concetto non soltanto gli omicidi commessi dal partner o dall’ex partner, ma anche quelli commessi per mano di parenti a seguito della ribellione della donna al controllo ossessivo di tutti gli aspetti della sua vita da parte dei primi, così come quelli perpetrati da un “un uomo, indipendentemente dal tipo e dall’intensità della relazione, a causa dell’esercizio di potere o dominanza, per ragioni di odio, disprezzo, passione o senso di proprietà della stessa donna” (Zara & Gino, 2018, p. 3; tda nostra). Dunque, in definitiva, riprendendo il pensiero dell’antropologa messicana Marcela Lagarde già espresso da Russell nel 2011, Merzagora (2023) informa che con femminicidio si intende

la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei loro diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso condotte misogine – maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria o anche istituzionale – che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia.
(p. 43)

Oggigiorno, telegiornali, radio e siti web si sono impadroniti del concetto di femminicidio nel loro costante raccontare dei numerosi casi di omicidio di una donna, quasi sempre ad opera del partner. Tuttavia, se da un lato è fondamentale smettere di alimentare il silenzio in relazione ai casi di violenza nei confronti delle donne e di femminicidio, dall’altro lato le modalità tramite le quali i mezzi di comunicazione di massa veicolano le suddette informazioni spesso non tengono conto che ogni essere umano interpreta messaggi, segnali e dati sulla base dei propri schemi cognitivi, delle proprie esperienze personali e delle proprie credenze sociali.

In altri termini, dall’incontro dei propri sistemi di credenze con i termini utilizzati dai mass media per comunicare i casi di criminalità e, nello specifico, di femminicidio, avrebbe origine una sorta di pozzo delle conoscenze dal quale le persone trarrebbero principalmente spiegazioni e affermazioni dettate essenzialmente dall’ideologia e dalla politica, creando “informazioni viziate da imprecisione, confusione e pregiudizio” ed influenzando “non solo i giudizi specifici relativi ai singoli eventi di criminalità riportati, ma le rappresentazioni sociali della stessa” (Zara, 2005, p. 119). Ecco, dunque, che il panico morale di cui parla Jenkins (1998) ha origine dalla modalità di presentare il problema agli occhi dell’opinione pubblica. Secondo l’autore, è fondamentale che i mass media riportino informazioni giuste ed accurate, di modo che il pubblico spettatore sia in grado di capire come i vari aspetti della società funzionano e non come dovrebbero funzionare, evitando generalizzazioni riduttive di ciò che costituisce veramente il problema.      

Parallelamente, appare riduzionistico e irrispettoso pensare alla drammaticità di tali fenomeni esclusivamente in termini di un loro mero incremento statistico e numerico, “mentre è legittimo aspettarsi che con il crescere della civilizzazione di un Paese essi si riducano drasticamente” (Merzagora, 2023, p. 44).

Eppure, permangono commenti populisti circa la non necessità di utilizzare un termine specifico, racchiudente il significato dell’uccisione di una donna per il solo fatto di essere tale, i quali si appellano di controparte all’occorrenza di un termine riservato esclusivamente all’uccisione di un uomo. Oltre al riferimento al mero dato statistico, che riporta costantemente numeri elevati di femminicidi rispetto alle uccisioni di uomini da parte di donne, per ribattere ai suddetti commenti è sufficiente pensare che, con l’ennesimo ricorso al maschile estensivo della lingua italiana, il nostro vocabolario già contiene il lemma omicidio, ossia il delitto di un uomo (dal latino homicidium, composto di homo, uomo, e –cidium, uccisione), in un chiaro riferimento al genere maschile.

Più complessa è la riflessione sul perché di una tale resistenza ad utilizzare il sostantivo femminicidio. Probabilmente, la teoria culturale ci permette di concludere per una trasmissione intergenerazionale, specialmente nel mondo occidentale, di convinzioni reificanti e misogine in ordine alle donne, ritrovandone spunti da Seneca (“al padre soltanto spetta il diritto di uccidere”) al Codice napoleonico del 1810, al cui articolo 23 si può leggere: “Il marito deve protezione alla moglie che, come contropartita, gli promette obbedienza”.

Inoltre, bisogna considerare l’influenza che in Italia ha avuto, e ha tutt’ora, la Chiesa di Roma la quale, rinnegando le rivoluzioni socio-culturali e scientifiche in tema di sessualità umana e veicolando da secoli l’imago femminile intesa come fonte di tentazione e di peccato, ha contribuito alla creazione di una struttura sociale fallocentrica e misogina.   

Messaggi, questi ultimi, ormai appresi da, purtroppo, molti individui che decidono inconsciamente di non dare nome all’uccisione di una donna per contrastare la paura di veder sgretolarsi il proprio essere maschio di fronte all’uguaglianza.

LA GELOSIA PATOLOGICA

Spesso citata nelle narrazioni mediatiche, la gelosia, quanto più è patologica, tanto più occupa un ruolo di prim’ordine nella criminogenesi dei casi di violenza di genere, financo giungere al femminicidio.

La gelosia, nel suo svilupparsi lungo un continuum che muove da una gelosia normale (morbid jelousy) ad una patologica (pathological jelousy), è un fenomeno che va letto a livello emotivo, ideativo e comportamentale. Tuttavia, se nella gelosia morbid si ravvisa esclusivamente la componente emotiva, quanto più ci si sposta sul piano ideativo, tanto più essa diviene patologica e tanto più emergono gli aspetti problematici connessi al dubbio persistente nei confronti della partner. Come possiamo definire o, quanto meno, intendere la gelosia patologica? Rispondiamo a questa domanda riprendendo le parole dello psichiatra forense Cynkier (2018)

La gelosia può essere definita come un complesso stato mentale evocato da un reale o falso (immaginario) cambiamento nel percepire la minaccia di perdere una relazione significativa (ipotesi, sospetti, interpretazioni) per opera di un rivale reale o immaginario che sarebbe subentrato emotivamente nella relazione con il partner. [La gelosia] È accompagnata da un insieme di varie interpretazioni dei comportamenti del partner, così come di quelli del rivale, generando ansia e portando la persona gelosa a cercare prove dell’infedeltà, oppure ad agire al fine di prevenire una potenziale infedeltà. La persona gelosa accumula tristezza, rabbia, odio, rimorso, amarezza, i quali possono incarnarsi in accuse nei confronti del partner erotico.
(p. 904; tda nostra)

Vengono indicate tre tipologie di gelosia patologica: la gelosia ossessiva, la gelosia paranoide e la gelosia delirante.

Pensandole in termini di un crescendo di validità criminologica, la gelosia ossessiva si manifesta nella forma di una duratura ossessione, talora anche per anni, che può influenzare l’intera psiche, occupare i pensieri e controllare le emozioni fino allo sviluppo di sindromi paranoidi. Si tratta di una manifestazione egodistonica, ossia il soggetto che la esperisce vive l’intrusione ideativa relativa all’infedeltà e al tradimento del partner, da cui nascerà la ruminazione ossessiva. In altri termini, il soggetto non vorrebbe vivere e agire spinto dal pensiero geloso, tant’è che, a seguito dei suoi comportamenti, proverà un profondo senso di colpa. Di converso, proverà sollievo in conseguenza di due situazioni:

  • disconferma del sospetto “Ho visto arrivare dei messaggi sullo smartphone, glieli ho letti ed era la zia Carolina che le insegnava come fare la torta. Ah che sollievo, non mi ha tradito!”

  • resistenza all’ossessione “Ho visto che sono arrivati altri messaggi sullo smartphone e riesco a non guardarli, faccio altro, guardo la partita mangiando una fetta della torta di zia Carolina del giorno precedente. Sto bene!”

Già più preoccupante da un punto di vista criminologico è la gelosia paranoide, la quale, a differenza della tipologia precedente, è egosintonica: il soggetto sospetta in modo ricorrente, senza alcuna giustificazione, della fedeltà del coniuge o del partner sessuale e si crede in ragione nel farlo. Riformulando, il soggetto con gelosia paranoide interpreta il sospetto non come un aspetto negativo di se stesso, bensì come un qualcosa che non va in un altro (la partner) e che non conferma la sua fedeltà.

Di conseguenza, l’egosintonia della gelosia paranoide fa sì che il soggetto assecondi il flusso della gelosia stessa, nel senso che egli non cercherà di contrastare attivamente la spinta emotiva e l’assetto ideativo dovuti alla gelosia; per contro, l’individuo si fa inglobare dalla gelosia e va alla ricerca di prove per confermare i suoi sospetti. Tuttavia, a differenza del soggetto con gelosia ossessiva, nel momento in cui non dovesse trovare riscontro positivo a tali sospetti, la reazione sarà di preoccupazione, non di sollievo. Per riprendere gli esempi precedenti: “È andata a farsi la doccia e ha lasciato il cellulare sul mobile del salone, vado a controllare che non mi tradisca. È l’ennesimo messaggio della zia Carolina per la ricetta della torta. Mannaggia, questa volta non l’ho beccata!”.

In ordine alla gelosia delirante, questa provoca nel soggetto l’esperimento di ansia, paura di perdere il partner, piuttosto che il proprio ruolo nella coppia, generando stress ed interferendo con il funzionamento personale e relazione della persona gelosa, di entrambe, oppure della relazione. Diverse sono le eziopatogenesi ipotizzate per questo tipo di gelosia, le quali includono esperienze traumatiche e sessuali subite da bambini, insicurezza del proprio ruolo sessuale e altre difficoltà nella propria vita sessuale, aver avuto molti incontri sessuali di breve durata, per giungere all’abuso di alcol e sostanze stupefacenti, alla psicosi o ad un disturbo del sistema nervoso centrale.

È importante cogliere i tratti comportamentali che accompagnano la gelosia delirante, in quanto il soggetto andrà alla costante ricerca di prove dell’infedeltà della partner controllando i suoi messaggi, ascoltando le sue chiamate, seguendola e spiandola fuori casa, financo ispezionare gli acquisti, i documenti di lavoro e lo stesso corpo della partner. Il problema è che ogni singola azione, parola o incontro della partner verrà sempre letto al servizio del delirio, da cui l’agito violento e talora femminicida del soggetto con gelosia delirante, specialmente se alla base di questa vi sono allucinazioni uditive dovute alla psicosi.

Ora, con particolare riferimento alle relazioni romantiche e sessuali, anche la più piccola e innocente manifestazione di gelosia costituisce sin da subito una bandierina rossa che dobbiamo imparare a riconoscere e condividere con amici, parenti e istituzioni. Infatti, in amore il concetto di gelosia è auto-distruggente, in quanto, nonostante in certe culture sia intesa come una delle sue manifestazioni, uccide la stessa nozione di amore, proibendo alla partner di dare e ricevere amore, così come di agire in autonomia nel mondo. Da qui, il suo essere “l’emanazione di un sentimento di possessione privo di affetto per la persona ‘amata’” (van Peer, 2023, p. 25; tda nostra).

Al tempo stesso, è importante sottolineare che nessuno dei suddetti tipi di gelosia giustifica l’esito omicida dei femminicidi, come si sente ancora oggi nel corso di telegiornali, o si legge sulle prime pagine dei quotidiani, in cui viene asserito che il partner femminicida non accettava la sua separazione, in quello che si presenta come una chiara colpevolizzazione della persona offesa.

Piuttosto, andrebbe sottolineata la componente relativa al tema del possesso e all’utilizzo della partner come mero strumento di affermazione dell’autore di reato e di nutrimento della sua autostima ipertrofica. In altre parole, bisognerebbe puntare i riflettori sul funzionamento narcisistico di talune personalità e sul narcisismo fallico. Brevemente, le personalità narcisistiche necessitano di costanti conferme circa le proprie grandiosità ed autostima, le quali devono provenire dall’esterno, dagli altri da sé. Ovviamente, anche una relazione sentimentale è servente a tale fine, in quanto ulteriore aspetto della sua esistenza alimentante il suo Io.

Ora, ed ecco il fulcro della problematica narcisistica, tendenzialmente, di fronte alla disconferma e alla disapprovazione, il soggetto diviene non curante ed elimina psicologicamente la persona che ha intaccato la sua autostima. Tuttavia, nelle relazioni ad alta valenza emotivo-relazione, di fronte al rifiuto o alla volontà di terminare la relazione d’amore da parte della partner, il soggetto vivrà la ferita narcisistica in termini di vergogna ed umiliazione, entrambe intollerabili in quanto rimandano al nucleo di sofferenza originario del paziente narcisista, ossia la mancanza di un qualcuno o un qualcosa che gli consenta di mantenere rinchiusa tale assenza all’interno dell’involucro narcisistico.

Riformulando, una persona con un funzionamento narcisistico di personalità si dimostra tendenzialmente non curante di fronte alla mancanza di approvazione, così che cercherà qualcun altro in grado di soddisfare le sue aspettative grandiose (“Va bene, tu non mi dai più le attenzioni che mi merito, allora passo ad un altro che, invece, lo farà”). Tuttavia, nel momento in cui il soggetto narcisista viene lasciato dalla partner, che nella visione narcisistica rappresentava un suo possesso, la reazione non sarà semplicemente di non curanza, bensì il soggetto comincerà ad alimentare una rabbia fredda e a lenta insorgenza, fino a quando la ferita narcisistica diviene talmente intollerabile da esitare in rabbia vendicativa, oppure nel femminicidio narcisistico.

Da ultimo, quanto sin qui riportato si aggrava notevolmente in presenza del cosiddetto narcisismo maligno, ossia una tipologia di narcisismo in cui si ha una forma grave di Disturbo Narcisistico di Personalità insieme ad altre componenti di seguito riportate a mero scopo informativo:

  • tendenza al comportamento antisociale
  • alta infusione ed autoaffermazione aggressiva: l’unico modo in cui l’individuo riesce a relazionarsi è l’aggressività
  • alto sadismo egosintonico in termini di disfunzione empatica: il soggetto manipola gli altri al fine di recare loro danno, traendone un gusto simil-sessuale
  • orientamento paranoideo: il soggetto vede la realtà esterna in termini di costante ostilità, tale da ricercare costantemente prove a conferma del suo sospetto
  • crisi emotive conducenti ad una suicidarietà non depressiva, bensì grandiosa: il suicidio diviene un mezzo per ritenersi superiore al mondo, a Dio, all’umano, così come per sentirsi padroni di se stessi e degli altri
  • fuga da un mondo che non si riesce più a controllare per mezzo della manipolazione

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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