21/08/2025

LA COMUNICAZIONE È IL MEZZO PIÙ FORTE PER CAMBIARE IL MONDO

IL LINGUAGGIO MEDIATICO DELLA VIOLENZA DI GENERE

Il 25 novembre è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, una giornata che deve servire a parlare e riflettere su un tema che, considerando la sua gravità, dovrebbe fungere da monito etico e sociale al fine di ridurre la probabilità di violenza nei confronti delle donne e del fenomeno criminologico dei femminicidi, piuttosto che da divisore sociale.

La Convenzione di Istanbul (7 aprile 2011), inerente la prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, all’articolo 3 presenta una serie di definizioni che permettono di risalire alla matrice della problematica della violenza di genere, ossia il suo fondarsi su un pensiero sociale e su una cultura guidati dalle aspettative di ruolo e dalla discriminazione.

Lo stereotipo sotteso ad una tale forma mentis è quello che porta a considerare le donne come individui occupanti una posizione subordinata a quella degli uomini. Questi rigidi schemi mentali fanno sì che, per molte persone, risulti ancora complesso riconoscere l’uguaglianza sociale, professionale e legislativa tra uomini e donne. Soprattutto, alimentano quell’illegittimo senso di dovere esperito da alcuni uomini di reprimere violentemente ogni minimo discostamento delle donne dal quadro sociale sopra delineato. A partire da questi presupposti, risulterebbe limitativo ricondurre la problematica della violenza sulle donne esclusivamente ad un discorso di reati sanzionati penalmente, in quanto essa è innanzitutto “l’estrinsecazione materiale di una gravissima patologia culturale, che quindi nella cultura, e non nella legge, dovrà trovare la sua soluzione” (Dell’Anno, 2021, p. 38).

Come per tutte le culture, anche per quanto concerne quella relativa alla violenza sulle donne, i primari mezzi di diffusione delle idee e dei comportamenti ad essa inerenti sono il pensiero e il linguaggio. Questi ultimi si sincretizzano facilmente come un’arma a doppio taglio, in quanto se, da un lato, sono gli strumenti essenziali per la condivisione e l’accrescimento del sapere comunitario, dall’altro lato, se utilizzati scorrettamente, sono anche i principali artefici della distorsione dei dati informativi e del modo di attribuire significati agli eventi umani.

Si pensi al danno informativo che può causare una modalità errata di utilizzo del linguaggio relativo alla problematica della violenza sulle donne da parte, non solo, dei mass media, ma anche, e soprattutto, della carta stampata dei giornali nel momento in cui, rivolgendosi ad un pubblico eterogeneo in quanto a capacità di selezione e giudizio critico delle giuste informazioni, essi mirino maggiormente al sensazionalismo della notizia, piuttosto che attenersi alla verità quantomeno fattuale dell’evento che descrivono. Conseguentemente, il rischio di colpevolizzare le persone offese per quanto loro accaduto, unito a quello di de-responsabilizzare gli autori di reato aumenta esponenzialmente.

Per comprendere appieno il senso della patologia mediatica alla quale le persone sono costantemente sottoposte, dal momento che si sta parlando di linguaggio, è opportuno iniziare dal significato delle parole. Due sono i lemmi chiave essenziali per questa analisi: femicidio, o femmicidio, e feminicidio.

Il concetto di femicidio viene descritto per la prima volta nel 1992 da Diana Russell, la quale lo utilizza per indicare non tanto l’uccisione di una donna, bensì proprio l’uccisione di una donna da parte di un uomo in quanto persona appartenente al genere femminile. Tuttavia, il vero lavoro pionieristico di Russell consiste nell’aver cominciato a diffondere il pensiero della collettivizzazione della problematica della violenza di genere: infatti, secondo l’autrice, i femicidi non sono una questione esclusiva di alcune singole persone, bensì un problema socio-politico.

Ecco, allora, un primo vizio della stampa, ossia quello di presentare i casi di cronaca relativi alla violenza sulle donne come fatti riguardanti singole persone, piuttosto che denunciare lo sfondo culturale patriarcale di quegli uomini violenti non in grado di vivere al di fuori delle aspettative e delle convenzioni sociali.

Cinque anni dopo il lavoro di Russell, Marcela Lagarde, in riferimento all’indifferenza dello Stato messicano innanzi a numerosi casi di ragazze violentate ed uccise, impiega per la prima volta il termine feminicidio, intendendo con esso (Merzagora, 2023):

la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei loro diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso condotte misogine – maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria o anche istituzionale – che comportano l’impunità delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia. (p. 43)

Proprio quest’ultimo termine è quello maggiormente impiegato in Italia, nonostante le contestazioni di uomini e donne di diversa estrazione sociale e di diversa professione.

Di base, feminicidio è il termine che anche i giornali italiani utilizzano con maggiore frequenza. Tuttavia, ed è qui un secondo vizio della stampa, quest’ultima usa il lemma in maniera errata, ossia essenzialmente con lo scopo di attirare l’attenzione del lettore, magari con l’ausilio di titoli impressionistici, piuttosto che informare in ordine al contesto in cui avviene la violenza di genere, vale a dire un milieu sociale governato dalla misoginia dei comportamenti comunitari e giudiziari che minano la libertà e la sicurezza delle donne.

Qual è, dunque, il nesso tra lo scorretto utilizzo del significato dei termini soprariportati e le notizie quotidianamente pubblicate dalle case giornalistiche e sui più svariati mass media? Il collegamento tra i due risiede nell’involuzione cui sono andati incontro sia la qualità dell’informazione sia la funzione primaria del giornalismo.

Infatti, mentre all’epoca della pubblicazione della prima edizione del Daily Courant (Londra, 1702), così come del Sun statunitense venduto a un solo penny (1833), lo scopo principale della stampa è quello di erudire la popolazione e di difendere i cittadini dagli abusi di potere, oggi è l’infotainment la stella polare del giornalismo: nato dall’unione delle parole inglesi information ed entertainment, questo termine indica l’ormai attuale usanza dei media di spettacolarizzare le informazioni, così da attirare e mantenere il proprio pubblico.

Questo istrionismo mediatico è alimentato da una certa onnipotenza dei giornalisti nel decidere, in primis, quali fatti siano effettivamente degni di nota e, successivamente, il come debbano essere presentati all’audience. Inoltre, da segnalare è anche l’abbassamento del registro linguistico, che se da un lato si avvicina sempre più a tutti i livelli di acculturamento della popolazione, dall’altro, attraverso il costante uso di metafore, di neologismi (soprattutto politici, quali regionalizzazione, slittamento a sinistra ecc.) e di racconti che richiamano le fiction televisive, fa perdere ai lettori il senso della notizia, sottraendo ad essa significato.

Per quanto riguarda nello specifico la rappresentazione mediatica della violenza sulle donne, dall’analisi di venti casi di feminicidio sono state individuate dieci parole chiave utili a creare una cornice narrativa deresponsabilizzante gli agiti violenti da parte degli uomini (Dell’Anno, 2021). I lessemi maggiormente ricorrenti sono lite, tragedia e gelosia, mentre quelli meno utilizzati sono mostro, raptus e onore.

L’avrebbe strangolata a mani nude al culmine dell’ennesima lite (QN – Il Giorno, 26/09/2019);

Una discussione violentissima, scoppiata per un mix di gelosia e orgoglio. Parole pesanti, insulti, minacce. Finché la mente di lui perde il controllo: prende un coltello da bistecca dalla loro cucina e colpisce lei alla gola, dopo averla trascinata dal soggiorno al bagno (La Stampa, 7/02/2020);

Scorrendo i capitoli di un’opera sofferta e incompiuta si legge la parabola di una relazione iniziata a un raduno di moto e finita in tragedia (La Repubblica, 16/07/2019);

Il teenager, sotto choc, è scappato dal padre-mostro e dunque ha avvisato la sorella 17enne di quanto successo (Il Giornale, 2/04/2019);

Gli inquirenti stanno scavando alla ricerca dei motivi profondi di quel raptus di follia finito nel sangue all’alba di un sabato di fine estate (QN – Carlino, 26/08/2019);

Il 46enne ha aggiunto soltanto che tutto è avvenuto al termine di un litigio, che la ragazza – a suo dire – l’aveva “deriso”, che lui era geloso di altre relazioni e per questo le discussioni erano continue (Il Corriere, 24/09/2019).

È dalla concatenazione di queste, ed altre, parole che scaturisce la teatralizzazione della notizia, presentando al pubblico lettore informazioni distorte e, talora, poco accurate (per quanto riguarda la tematica della gelosia clicca qui).

Infatti, dalla lettura dei fatti di cronaca, molto spesso si evince una situazione di potere paritaria (lite), in cui l’esito delittuoso sarebbe la conseguenza di una condizione di vita in cui entrambi i partner erano violenti l’uno nei confronti dell’altro, mentre la violenza perpetrata è unilaterale ed unidirezionale.

Da qui, l’introduzione al frame narrativo della perdita di controllo, del famigerato raptus, così da veicolare un’idea di aggressione risultante da un’irrefrenabile e momentanea perdita di controllo, che ha portato ad agire in maniera irrazionale. Tuttavia, l’uso di questo termine, oltre a non considerare il dato epidemiologico secondo cui solo una minima percentuale di uomini che uccidono sarebbe affetta da un disturbo psichiatrico, risulta il più delle volte incoerente con la criminodinamica del fatto, in quanto o c’è stata premeditazione, oppure è possibile ricostruire una storia di continui abusi e violenze.

Ancora, il ricorrente riferimento alla tragedia presenterebbe il feminicidio come un dramma che si abbatte su entrambe le persone, rendendole così ambe due vittime dello stesso fatto, che assume le sembianze di una calamità naturale, mentre esso è la conseguenza diretta dell’azione e della volontà di una sola delle persone coinvolte.

Non da ultimo, è opportuno sottolineare come sia ancora piuttosto in auge il riferimento all’onore intaccato da presunte azioni denigratorie commesse dalla donna nei confronti del partner, da cui deriverebbe una più o meno implicita colpevolizzazione della donna stessa. Tutto ciò permette di riflettere su quanto sia ancora ben vivo nell’immaginario comunitario e giornalistico il riferimento al non più vigente articolo 587 del Codice penale (abrogato nel 1981), che sanzionava irrisoriamente (reclusione da tre a sette anni) colui che “cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia”.   

Ora, l’impiego di questi termini, così come quello di mostro e di altri affini (es. branco, banda, grinfie ecc.), più che asservire la mera funzione informativa che i giornali dovrebbero detenere, servono principalmente a caricare emotivamente i racconti di fatti già di per sé drammatici, correndo il rischio di influenzare la percezione del fenomeno, come riporta Capecchi (2015):

I media possono essere considerati apparati di mediazione simbolica della realtà sociale, nel senso che a lungo termine e in maniera sottile e indiretta, attraverso la rappresentazione e la legittimazione di certe “porzioni di realtà”, credenze, valori e modelli comportamentali, influenzano la nostra percezione della realtà e il modo di rapportarci ad essa. (p. 16)

Inoltre, un altro rischio connesso è quello di alimentare tutte quelle distorsioni del pensiero emergenti dalle cosiddette teorie implicite (Ward, 2000), che influenzano la percezione, la spiegazione e la significazione delle vittime coinvolte, del mondo circostante e, soprattutto, della legittimità dei propri comportamenti violenti. A mero scopo informativo, si riportano quelle che sono state riconosciute come le cinque teorie implicite più significative per chi agisce violenza sulle donne (Polaschek & Ward, 2002), insieme a degli esempi di frasi formulate dai perpetratori delle suddette violenze:

  1. inconoscibilità delle donne – Molte donne tendono ad essere dolci fino a quando non catturano l’uomo per poi rivelare il loro vero Sé;
  2. oggettivizzazione sessuale delle donne – Quando una donna dichiara di essere stata stuprata da un uomo da lei conosciuto o dal suo compagno probabilmente dice il falso; vuole semplicemente vendicarsi di qualcosa;
  3. incontrollabilità del desiderio sessuale maschile – Se una donna esce con abiti provocanti, minigonna e senza indossare il reggiseno sta richiamando su di sé l’attenzione;
  4. assolutizzazione dei diritti sessuali maschili – In alcuni casi, essere stuprata sarebbe per la donna una buona lezione;
  5. pericolosità del mondo – Se non avessi agito prima avrei dovuto subire io un’aggressione.

Non si è, poi, così lontani dalla modalità di trasmissione delle informazioni sui casi di feminicidio da parte della stampa. Semmai, si potrebbe persino dire che quest’ultima compia il passo ulteriore: superare l’immaginifica barriera che separa il pensiero dal linguaggio, veicolando subdolamente irrazionali giustificazioni riguardo alla violenza sulle donne.

Infatti, dall’incontro dei propri sistemi di credenze con i termini utilizzati dai mass media per comunicare i casi di criminalità e, nello specifico, di feminicidio, avrebbe origine una sorta di pozzo delle conoscenze dal quale le persone trarrebbero principalmente spiegazioni e affermazioni dettate essenzialmente dall’ideologia e dalla politica, creando “informazioni viziate da imprecisione, confusione e pregiudizio” ed influenzando “non solo i giudizi specifici relativi ai singoli eventi di criminalità riportati, ma le rappresentazioni sociali della stessa” (Zara, 2005, p. 119). Ecco, dunque, che il panico morale di cui parla Jenkins (1998) ha origine dalla modalità di presentare il problema agli occhi dell’opinione pubblica. Secondo l’autore, è fondamentale che i mass media riportino informazioni giuste ed accurate, di modo che il pubblico spettatore sia in grado di capire come i vari aspetti della società funzionano e non come dovrebbero funzionare, evitando generalizzazioni riduttive di ciò che costituisce veramente il problema.


Riferimenti bibliografici

Capecchi, S. (2015). L’audience “attiva”. Effetti e usi sociali dei media. Carocci.

Dell’Anno, M. (2021). Parole e pregiudizi. Il linguaggio dei giornali italiani nei casi di femminicidio. LuoghInteriori srl. ISBN 9788868642969.

Jenkins, P. (1998). Moral panic: changing concepts of the child molester in America. Yale University Press.

Merzagora, I. (2023). Introduzione alla criminologia. Raffaello Cortina Editore.

Polaschek, D.L.L., Ward, T. (2002). The implicit theories of potential rapists: what our questionnaires tell us. Aggression and Violent Behavior, 7(4), pp. 385-406. DOI: https://doi.org/10.1016/S1359-1789(01)00063-5.

Russell, D.E.H., Radford, J. (1992). Femicide. The politics of woman killing. Twayne Pub.

Ward, T. (2000). Sexual offenders’ cognitive distortions as implicit theories. Aggression and Violent Behavior, 5(5), pp. 491-507. DOI: https://doi.org/10.1016/S1359-1789(98)00036-6.

Zara, G. (2005). Le carriere criminali. Collana di psicologia giuridica e criminale diretta da Guglielmo Gulotta. Giuffrè Editore.

Zara, G. (2018). Il diniego nei sex offender: dalla valutazione al trattamento. Raffaello Cortina.

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