CARCERE

TRA LA NUOVA CRIMINALITÀ E LA VECCHIA SANZIONE
In Italia, una variabile interveniente che ha contribuito, e contribuisce tuttora, all’anzianità del sistema sanzionatorio è la forte influenza esercitata dalla Chiesa Cattolica. Quest’ultima avrebbe ispirato il carattere retributivo della pena, la quale deve servire a compensare il male provocato dalla commissione del reato, attraverso l’inflizione al reo di un altro male (la pena). Di nuovo, dov’è la differenza con la legge del taglione se la pena si pone come unico scopo una sua mera e cieca applicazione, così da giustificare il suo adempimento solamente sulla base del fatto che un reato sia stato commesso?
Un unico elemento a favore dell’appena riportata teoria retributiva consiste nel principio di proporzione della pena, ossia, se il fine di quest’ultima è quello di controbilanciare il male arrecato dal reato, allora essa dovrà essere proporzionata alla serietà obiettiva del fatto commesso e alla reità della persona. In ogni modo, la dottrina penale ha da sempre mosso critiche rilevanti a questa impostazione, di per sé anche poco discutibili. Riprendendo le parole di Pelissero (2021):
in un ordinamento laico, lo scopo di una pena non può essere la retribuzione di un fatto commesso (prospettiva dalla quale, semmai, muovono le istanze morali o religiose), perché la finalità che uno Stato deve perseguire è la prevenzione dei reati, l’unica che giustifica la comminazione e l’inflizione di pene che privano o limitano diritti personali o patrimoniali. (p. 9)
Da qui, lo sviluppo di due prospettive preventive l’una generale, l’altra specifica. In ordine alla prima, questa mette insieme le istanze di deterrenza e di orientamento culturale delle norme penali: innanzitutto, la pena deve minacciare i consociati che, in caso di trasgressione di una norma giuridica, seguirà il male da essa arrecato; così facendo, gli individui si conformerebbero alla norme penali tutelanti gli interessi che essi considerano meritevoli di protezione. Nello specifico, quest’ultima deriva della prevenzione generale servirebbe a far avvertire ai consociati l’eventuale sproporzione per eccesso di una pena, percepita come un abuso della potestà punitiva da parte del legislatore.
Invece, la prevenzione speciale fornisce alla pena, in primis, una funzione neutralizzante la pericolosità del reo e, parallelamente, mette in risalto la funzione principe della pena, vale a dire la rieducazione del condannato.
Prima di operare alcune osservazioni relativamente a quanto appena riportato, è opportuno informare che, con la sentenza n. 12 del 1966, la Corte costituzionale ha stabilito il carattere polifunzionale delle pene, nel senso che queste dovrebbero integrare al loro interno tutti gli aspetti sopra citati: punitivo, prevenzione generale e prevenzione speciale.
Ora, un primo aspetto critico sul quale è opportuno soffermarsi riguarda il concetto di neutralizzazione della pericolosità del soggetto su cui si basa la suddetta prevenzione speciale. Il ragionamento alla sua base risulta molto semplice: finché una persona è detenuta in carcere, essa non potrà nuovamente ricommettere alcun reato. Tuttavia, da tale prospettiva emergono due conseguenze nefaste, e tra di loro relazionate, in vista di un sistema sanzionatorio che punti davvero ad umanizzare la pena e a svecchiarsi dai retaggi del passato. Infatti, la riflessione di cui sopra ha enfatizzato per anni una cieca giustificazione del potenziamento delle pene in chiave rigorosamente carceraria, senza, però, essere in grado di considerare il fallimento di una tale disposizione nel contenere i tassi di ricaduta criminale, soprattutto se, una volta scontata la pena, la persona incontra difficoltà nell’avviare una nuova vita al di fuori del carcere, specialmente dopo anni di limitazione della libertà personale.
Un simile ragionamento lo si può individuare nel Diritto Canonico, in cui si statuisce che le funzioni originariamente attribuite alla pena consistono nella neutralizzazione del delitto, nell’intimidazione e nell’emenda del colpevole, insieme alla finalità special-preventiva connessa alla rieducazione del reo. Dunque, per quanto concerne l’esecuzione penale parrebbe non esistere alcuna distinzione tra gli ordinamenti giuridici laico e religioso, a riconferma della scarsa capacità del diritto secolare di staccarsi dai canoni formulati dalla Chiesa di Roma.
In ogni modo, non sarebbe corretto non riconoscere l’innovazione apportata dalla Costituzione italiana inerente il secondo elemento costituente la prevenzione speciale: la rieducazione del reo. L’articolo 27, comma 3 della Costituzione italiana stabilisce: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Che cosa vuol dire?
Innanzitutto, sulla base della lettura stabilita dalla Corte costituzionale in seguito alla sentenza n. 313 del 1990, l’aspetto rieducativo delle pene deve poter essere individuato già nel momento della comminazione legale delle stesse, ossia all’atto della previsione per legge del reato e delle relative pene.
In seguito, il dettato della norma costituzionale afferma che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, il che assume un doppio significato. Prima di tutto, la rieducazione non deve imporsi coattivamente alla persona del reo, in quanto rappresenterebbe una violazione dell’articolo 2 della Costituzione (libertà di autodeterminazione), bensì deve configurarsi come una possibilità di percorso richiedente una volontaria accettazione da parte del condannato. In secondo luogo, il verbo modale devono obbliga lo Stato ad agire al fine di consentire l’effettiva attuazione dei percorsi rieducativi, garantendo istituti detentivi che garantiscano la piena vivibilità per i detenuti, personale idoneo ed attività da svolgere, unitamente alla promessa di un maggior impulso verso le misure alternative alla detenzione in carcere.
Da ultimo, nonostante la Costituzione impieghi il sostantivo rieducazione, essa non va intesa nei termini religiosi di emenda morale, bensì nell’accezione di risocializzazione, ossia di possibilità affinché il reo possa tornare ad integrarsi nel mondo sociale a seguito dell’esperienza intra-moenia (ossia all’interno del carcere). “La rieducazione è, dunque, rivolta ad un progetto di speranza che deve essere lasciata sempre come possibile per chi entra in carcere, a prescindere dalla gravità del reato commesso” (Pelissero, 2021, p. 12). Ne consegue che la logica populista dello sbattere in galera e gettare via la chiave non può essere accettata, in quanto non conforme ai dettami costituzionali (art. 27, c. 3 Cost.), così come all’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), il quale statuisce il divieto di trattamenti inumani e degradanti (si veda, ad esempio, Corte EDU, Sez. I, 13 luglio 2019, Viola contro Italia).
La domanda che ci si può legittimamente porre a questo punto potrebbe essere la seguente: quante delle belle parole sopra scritte sono, ad oggi, applicate in materia di detenzione? Nella pratica del sistema sanzionatorio, purtroppo, poco di quanto sopra esposto trova effettivamente una sua ragione d’essere.
La spiegazione alla precedente risposta la si ritrova in quelle influenze religiose di cui si è precedentemente discusso, ma, si potrebbe dire soprattutto, in un assetto sanzionatorio ancora conforme all’originario impianto del Codice Penale del 1930, al quale l’odierna vecchia guardia della magistratura italiana non riesce a voltare le spalle. O non vuole farlo.
Si pensi, infatti, a quanto sia ancora piuttosto consolidato il cosiddetto sistema del doppio binario del Codice Rocco del 1930. Questo implica la contemporanea presenza di due categorie di sanzioni distinte per funzioni e disciplina: da un lato, le pene ancorate alla colpevolezza del soggetto per il fatto di reato e commisurate in base della gravità di quest’ultimo (art. 133 c.p.); dall’altro lato, le misure di sicurezza imperniate sul concetto di pericolosità sociale dell’autore del reato, decretata dal giudice e intesa come la probabilità che una persona ha di commettere ulteriori reati (art. 202 c.p.).
Tuttavia, al contrario delle pene, le misure di sicurezza non hanno un durata massima, in quanto la loro esecuzione permane fin quando persiste la pericolosità sociale della persona. Ciò significa che, potenzialmente, pur avendo scontato la pena stabilita per il reato commesso, la privazione della libertà dovuta alla misura di sicurezza potrebbe persistere per sempre, dando origine a quelli che vengono chiamati ergastoli bianchi. Si pensi, ad esempio, ad un soggetto imputabile che abbia scontato gli anni di carcere a lui comminati, ma che, accertata la sua pericolosità sociale, continui a sottostare alle restrizioni della relativa misura di sicurezza (assegnazione a casa di lavoro o colonia agricola ex art. 216 c.p.).
Il legislatore, con la legge 81/2014, ha tentato di umanizzare questo impianto stabilendo una durata massima per le misure di sicurezza detentive sulla base del limite massimo edittale di pena previsto per il reato commesso. Ben poco, considerando che questa disposizione non vale in queste due situazioni: 1) se il reato prevede la pena dell’ergastolo; 2) per le misure di sicurezza non detentive (es. libertà vigilata).
In aggiunta, apparentemente contraria alle norme costituzionali ed europee è la disciplina impartita dall’art. 41-bis di ordinamento penitenziario, il cosiddetto carcere duro, la quale impone al condannato rigide e severe disposizioni carcerarie. Apparentemente contraria, in quanto i numerosi ricorsi alla Corte EDU da parte dei sottoposti al suddetto regime in ordine alla violazione dell’art. 3 della CEDU hanno più volte superato il vaglio della stessa Corte Europea, la quale non avrebbe ravvisato trattamenti né inumani né degradanti. Semmai, un atteggiamento più severo è stato adottato dal Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura e delle Pene o trattamenti inumani e degradanti (CPT), che, attraverso il monitoraggio da esso eseguito tramite visite periodiche presso gli istituti penitenziari, avrebbe ravvisato le seguenti problematicità: la creazione di una condizione che isola il detenuto, la carenza di attività (lavoro, istruzione ecc.) a lui offerte, la carenza di contatti umani adeguati sia con il personale penitenziario sia con il mondo esterno, la concezione di carcere duro come mezzo di costrizione psicologica per costringere il detenuto a collaborare con la giustizia e la durata talora molto protratta nel tempo.
Ma le norme costituzionali ed europee pare abbiano anche poca voce in capitolo relativamente alla piaga del sovraffollamento carcerario. In Italia, si tratta di una problematica endemica avente conseguenze davvero negative per quanto concerne le condizioni di vivibilità di quelle che, al posto di celle, andrebbero nominate camere di pernottamento, secondo la dicitura suggerita da una circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) del 2017.
Il carattere endemico dell’appena riportato problema è stato decretato definitivamente nel 2013 in seguito alla Sentenza Torreggiani e altri contro Italia, con la quale la Corte EDU ha ritenuto lo Stato italiano responsabile di aver sottoposto i detenuti ad un trattamento inumano o degradante (art. 3 CEDU). Se ne è ricavato quanto segue:
Ogni Stato ha l’obbligo di assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto, né ad una prova di intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute, il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente. (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sez. II, 8 gennaio 2013)
Così, l’Italia si è trovata di fronte ad una situazione di necessità richiedente interventi che fossero i più repentini possibili. Nonostante le tanto auspicate riforme volte a ridurre la popolazione carceraria, come ad esempio ampliare la possibilità di accedere alle misure alternative alla detenzione in carcere, al 12 giugno 2024 i detenuti sono 61.468 su un totale di posti regolarmente disponibili che ammonta a 47.067 e rispetto ad una capienza di 51.221. Tutto ciò, a livello nazionale, esita in un indice di sovraffollamento del 130,59% (a San Vittore è al 230%).
Tale problematica si riversa anche sugli istituti di pena e di custodia minorili, specialmente dall’entrata in vigore del decreto Caivano, che ha introdotto termini di custodia cautelare più lunghi rispetto al passato e differenti premesse per gli arresti. In questo modo, se a Torino, ad esempio, ci sono 60 detenuti su 46 posti disponibili, Firenze ne detiene 25 su 17 posti; se Roma ammonta a 57 detenuti minorenni su 41 posti disponibili, Treviso ne ha 21 su 12 posti. Parallelamente, non bisogna dimenticarsi del personale penitenziario e delle aggressioni su di esso esercitate, le quali, se nel primo semestre del 2023 erano state 688, nel 2024 sono aumentate a 881.
Ancora, sicuramente degno di essere menzionato è il sempre più pregnante fenomeno dei suicidi nelle carceri, qui nello specifico quelle italiane. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, i detenuti costituiscono in sé un gruppo vulnerabile nell’ottica del rischio suicidario in quanto, da un lato, si tratta di persone spesso facentesi carico di rischi preesistenti alla privazione stessa della libertà; dall’altro lato, l’incompatibilità della condizione carceraria con uno sviluppo equilibrato della persona costituisce un significativo fattore di rischio al fenomeno suicidario.
A maggio del 2024 sono più di trenta i detenuti che si sono tolti la vita nelle carceri italiane, mai quanto l’anno nero per i morti suicidi in carcere qual è stato il 2022, durante il quale sono stati contati ottantaquattro suicidi, per un totale di 1.754 detenuti morti suicidi negli ultimi trentadue anni. Che tutto ciò avvenga principalmente per soffocamento o per impiccagione poco importa. Di converso, ciò su cui è opportuno riflettere criticamente è come sia possibile che il tasso di suicidi nelle carceri sopravanzi nettamente il corrispettivo tasso nella popolazione generale. Si muore in carcere o si muore di carcere?
Date le premesse di cui sopra, la risposta verterà sulla seconda opzione. In ogni modo, come suggerito dal Comitato Nazionale di Bioetica nel 2010, prevenire e contrastare il fenomeno suicidario nelle carceri è possibile nel momento in cui si adotta una politica ecologica che si rivolga a tutta la comunità penitenziaria e a tutte le figure professionali che ne fanno parte. È il diritto alla salute che deve essere tutelato. Salute fisica certamente, ma anche psicologica, specialmente per quella parte di popolazione detenuta portatrice di problematiche psichiatriche. Se si continuerà a ledere questo diritto costituzionale, non si potrà neanche pensare di attuare la fondamentale funzione attribuita dall’art. 27, c. 3 Cost. alla pena, ossia la riabilitazione della persona detenuta. Ecco, allora, che per prevenire il suicidio nelle carceri bisognerà sempre più investire su riforme e provvedimenti in grado di creare e mantenere un ambiente che rispetti le persone e che lasci aperta una prospettiva di speranza e un orizzonte di sviluppo della soggettività in un percorso di reintegrazione sociale.